Matteo Martini

...Martini, che artista è, non può non aver provato un brivido di piacere osservando con occhi intenti quelle gamme cromatiche, percorrendo con lo sguardo quelle forme e quei simboli: parlo di quelle distese di verdi, gialli, arancioni, ocra, marroni – qua e là spruzzati di bianco – o ancora degli azzurri che virano al grigio chiarissimo e al bianco, o al blu intenso e al violetto. Tinte altimetriche e batimetriche non sono forse pura astrazione?

Prendete una carta geografica, anche una delle più note; capovolgetela e osservate l’immagine che vi si spalancherò sotto gli occhi: prima, la realtà di uno spazio noto, oserei dire della figurazione oggettiva; poi, al rovescio, l’irrealtà – o una realtà altra – la forma che scuote la mente sollecitandola a interpretazioni ardite, alla speculazione. Quella forma nuova è astrazione. Spazio e colore ridefiniscono il mondo o creano altri mondi, altre superfici.

Penso che la ricerca che Martini pone sotto l’insegna di “polimorfismo geografico” sorga da quel fascino.

 

Segno, disegno, forme e colori

I segni liberi, tracciati a china, e gli spazi cromatici resi ad acquerello si completano nel disegno che li definisce, ossia – sono parole dell’artista – «nel disegno scritto, a volte confine inviolabile di irrequietezza, a volte con un percorso parallelo dove nulla è chiuso a definire frammentarietà».

Riconosciamo, in molte opere di Matteo Martini, un segno preciso, inciso ma anche vibrante e mobile, come alla continua ricerca di nuovi spazi da circoscrivere, contenere, descrivere; è quasi un corpo a corpo con la morfologia che si viene definendo nella mente a mano a mano che il pensiero si dispiega. «Spesso ho l’impressione – spiega Martini – che quel segno libero, così delimitato, cerchi a tutti i costi di liberarsi battendo con forza sul suo contorno; questo provoca una reazione visiva, una frammentazione come in una reazione chimica. Il segno segue dei processi di affermazione, di cancellazione e di affermazione di ciò che è stato cancellato: sono gli strati di un’indagine scritta».

C’è, in Matteo Martini, una profonda passione per il disegno – inteso come resa del reale, della prospettiva, dei dettagli di paesaggi, edifici, strade, orizzonti (come possiamo ammirare in opere quali la straordinaria Lomellina on my mind); e, al tempo stesso, vi è una tensione astratta e simbolica.

Una contraddizione? una dicotomia? Eppure, a ben guardare, i due fronti espressivi non appaiono così contrapposti; anzi, si confermano entrambi nell’orizzonte della precisione, dell’amore per il dettaglio, per la cura spaziale e nella tensione armonica che si coglie nelle opere di Martini, siano esse figurative o astratte.

 

Un’astrazione sorvegliata

L’uso della china richiama l’amore per la precisione e per il dettaglio, propria del disegnatore. Il segno deciso suggerisce una tensione calligrafica, che si fa evidente soprattutto nelle opere in cui domina l’inchiostro; qui il segno si dispone quasi in forma di scrittura, tanto da ricordare le forme dei calligrammes.

Nel caso delle opere esposte nella mostra “Polimorfismo geografico”, l’antica tecnica dell’inchiostro si unisce all’impiego dell’acquerello, una tecnica pittorica anch’essa storicamente legata al disegno, ma poi fatta propria da molti maestri dell’astrazione. Davanti a opere come Tracks o Patch, o come Un-defined borders, è come se stessimo osservando un Kandinskij “attualizzato” (mi si passi il termine), alle prese con la ridefinizione delle proprie pulsioni e visioni alla luce di un mondo che si frammenta a mano a mano che si globalizza. Riconosciamo certi giochi di macchie di colore scuro, in cui predominano il rosso e l'azzurro – tinte che Kandinskij doveva considerare in relazione proprio perché le troviamo sempre insieme – unite a un sapiente impiego del bianco e dei colori chiari. Come ha intuito Argan, «il rosso è un colore caldo e tende a espandersi; l'azzurro è freddo e tende a contrarsi. Kandinskij non applica la legge dei contrasti simultanei, ma la verifica; si serve di due colori come di due forze controllabili che possono essere sommate o sottratte e, secondo i casi, cioè secondo gli impulsi che riceve, si avvale di entrambi affinché si limitino o si esaltino a vicenda. Ci sono anche segni lineari, filiformi; sono, in un certo modo, indicazioni di movimenti possibili, sono tratti che suggeriscono la direzione ed il ritmo delle macchie che vagano sulla carta. Danno movimento a tutto l'acquerello».

Come in Kandinskij, anche in Martini riconosciamo dei “movimenti possibili”, che a loro volta suggeriscono mondi possibili, mappe mentali di una geografia immaginata e poi artisticamente realizzata e comunicata. Movimenti che sono il frutto di tensioni opposte ma armonizzate: la delimitazione e l’espansione polimorfa; la sorveglianza di una mano rigorosa e il respiro del pensiero, che sfugge a ogni tentativo di restrizione.

Nasce così una nuova “cartografia”, fatta di masse in divenire, fratturazioni, faglie, mondi che si scontrano e si allontanano lasciando intuire una mutazione continua dello spazio. La casualità delle forme è solo apparente, ché anzi, a ben guardare, appare causalità: ciascun oggetto pittorico determina l’accadere e il disporsi degli altri, in un gioco di relazioni che tende all’equilibrio e all’armonia complessiva di un nuovo mondo rappresentato.

La dilatazione dei margini del dipingere, che informa il grande flusso dell’astrazione novecentesca, si ripercuote qui, ed è in questa vasta e multiforme corrente che si situa l’azione pittorica di Matteo Martini.

 

 

Marco Beretta